Quando ho fatto il passo più lungo della gamba e ho preso il treno per Roma con uno zaino da backpacker, quel sabato mattina di inizio estate 2006, avevo idea che sarebbero cambiate molte cose, certo, ma non pensavo che avrebbero vacillato anche le basi.
Spostarsi di 200 km mi restituì a quel tempo la stessa identica sensazione di spaesamento che dovette provare Mr Livingstone esplorando lo Zambesi: mi sentivo incompresa.
La parlata romanesca non mi metteva delle grandi “barriere all’ingresso”, non c’erano delle parole o dei concetti totalmente incomprensibili nella lingua colloquiale (tranne sta benedetta divisione dei soldi in scudi, piotte e sacchi… mio dio, ancora non la capisco). Il vero problema, per me, è che ero io che avevo una barriera all’entrata: insomma sulle cose importanti non mi capivano.
Ad esempio, se dicevo che uno aveva l’arteteca, nessuno capiva precisamente che volessi dire, se parlavo di un ruoto o di una scafarea o di una cuccumella non era chiaro a cosa mi stessi riferendo. Così come se chiedevo una ceneriera, manco fossi stata altoatesina, la gente sgranava gli occhi e mi chiedeva: “Scusa, una che?”
Quando chiedevo a qualcuno se poteva per un brevissimo lasso di tempo tenermi una cosa, ad esempio mentre cercavo le chiavi dicevo “Mi mantieni la borsa?“, mi correggevano sempre e mi dicevano “Guarda che si dice -Mi tieni e non mi mantieni-“, solo che per me il tenere momentaneo si diceva “mantieni”, era ovvio, ma sti romani dove avevano studiato…?
Non conoscevano il concetto di ofanità, per non parlare della cazzimma, e se dicevo “oggi stracqua” o che una tale cosa si era squaqquariata mi sentivo sola.
Detto questo, però, si pretendeva che io facessi buon viso a cattivo gioco se mi dicevano borza, regazzìno invece di bambino, sssssedia (con 52 esse) oppure tiettelo, per dire tienilo tu.
Con gli estranei ho fatto quello che ho potuto, ma il marito è stato debitamente istruito con corsi serali di approfondimento tanto che, dopo più di 7 anni di convivenza, ora sa dire perfettamente “ue” con l’accento di un puteolano, “m’agg scassat a uàllera” (anche se questo non glielo ho insegnato io, ma deve essere andato a ripetizione da qualche supplente). Sa dire “marò” con quella precisa intonazione che ti lascia un senso di vuoto nello stomaco, “chian chian“, per dire che non si affretta e sa dividere le ragazze tra cuoppi e cozze, destreggiandosi abilmente tra le sottili sfumature che differenziano le due categorie. In un corso di specializzazione ha anche imparato a pronunciare la parola ciucciuettola (che vuol dire civetta), ma nonostante gli piaccia da morire trova poche occasioni per usarla, soprattutto con le persone con cui ha poca confidenza.
Detto questo, la vita gli riserva ancora delle insidie, povero. L’altra notte la dissennatrice verso le 3 ha perso il ciuccio e ci ha chiamato. Ci siamo risvegliati come dagli inferi e il marito mi ha detto: “Lascia, vado io.” Ero incredula e felice, ma ho fatto comunque il gesto, dicendogli: “Aspetta, facciamo il tocco?” Lui mi ha guardato per un attimo e poi si è alzato per andare a fare il ciuccio-detector.
Quando è tornato in camera, però, ho notato che aveva ancora una faccia interrogativa e infatti mi ha chiesto “…ma che è poi sto tocco?” “Ma come cos’è il tocco? ” Gli ho chiesto io “Come lo chiami tu, la conta?”.
Ero troppo stanca, non riuscivo a fare conversazione, ma mi pare di ricordare che le ultime parole che gli ho sentito dire, mentre mi riaddormentavo, sono state: “Macheccazzzzzzo”
Vedete? A sapere le lingue, nella vita, non ci si sbaglia mai.
Il tocco proprio mi è nuova!
Inizia con “Pù, passa paperino, con la pipa in bocca…”
Non ti dice niente?
🙂
Meno di niente! Sono ignorante! (O più semplicemente, cresciuto a Bologna. 😀 )
Vabbè, ma allora dillo subito che non c’è storia…
e per fortuna che c’è wikipedia, anzi, nap-wikipedia (http://nap.wikipedia.org/wiki/Paggena_prencepale) sennò capirei la metà di questo post (oltre al ruoto, alla cuccumella e alla uallera, il resto sarebbe mistero)
Da mitteleuropeo, ammennicoli, apprezzo particolarmente i tuoi avvicinamenti alla cultura latina (soprattutto il facimme ammuina…).
Aggiungerò anche parannanza, introncoliare, filosce, impostarella. Oppure tu mi chiedi una parola ed io traduco, come wordreference.
Ahahahahah ma come ti capisco!! Io calabrese a Roma! Ma ti dirò: ai miei detti non riesco a rinunciare…
🙂
Per non parlare di “S’è fatta na certa, damose na mossa”.
Ti viene l’eritema, vero?
Ahahahah o “ciao cì se beccamo” ma ti dirò la cosa che mi piace di più è l’inizio di una frase con il “che” (che te posso dì na parola- che mo o fai er caffè- che me dai no strappo) però mi piace calarmi senza abbandonarmi!
ma stracqua è desistere?
no ma perchè voi stracquerestedal 31 gennaio???
A cuoppo cupo poco pepe cape!! 🙂
No, straqua è quando fa sputazzi di pioggia con un sacco di vento e poi smette.
Puh.
Bella la dissennatrice! Oh, comunque non ci si capisce neanche fra dialetti di provincie diverse! Tipo se a Cosenza si dice “sciuaddru!!!!” come esclamazione di stupore a Catanzaro si ribatte con “focu meu” per dire “stile cazzi!” e se a Reggio uno dice “vaju e m’accuoppu” a Cosenza capisci che uno si va a far del male (autolesionista) quando in realtà l’essere sta andando a dormire!
E’ pazzesco come cambia da provincia a provincia.
Pensa solo che se da Napoli vai a Pozzuoli (10 km) pensi di essere stato catapultato in Turchia. E non sto scherzando.
Stessa cosa se da Cosenza passi verso quei paesi arabresh dove è tipica una cultura greco ortodossa!
E il bello è che ci puoi andare senza passaporto.
Scoprire culture diverse a due passi da casa costa poco, solo un 20 euro di benzina e una cinquantina se vuoi cenare!
Pù, passa paperino, con la pipa in bocca guai a chi lo tocca… ma poi come prosegue? Che mi hai ricordato?! Che bellezza!
(Alla mia pupa sto insegnando a dire scugnizza con un occhio di riguardo verso la scu).
😉
Allora, le teorie sono 2.
La prima: Pù, passa paperino, con la pipa in bocca, guai a chi lo tocca, l’hai toccato proprio tu, esci fuori propr-i-o tu.
La seconda: Pù, passa paperino, con la pipa in bocca, guai a chi lo tocca, l’hai toccato proprio tu, esci fuori propr-i-o tu, ho-detto-tu. Questo, secondo il mio amico Tony, avviene quando il tocco usciva a chi lo faceva. Era un paracadute, in pratica…
Te lo ricordi?
Sì ricordo la prima versione! La sto insegnando a mia figlia! 🙂 Ora sto interrogando mia madre per vecchie filastrocche. Ad esempio ‘Bella che dormi in un letto di rose e mentre dormendo un bacio d’amor… ‘ e poi?
Gradevolissimo come sempre il tuo post.
Ma voglio porre a te che sei sicuramente un’esperta sull’argomento un quesito che mi attanaglia da un po’ sull’uso di nuovi significati a parole dialettali. Il quesito è il seguente.
Secondo te cosa vuol dire “pariare” ? Secondo me significa digerire ma vedo che le nuove generazioni (complice l’uso che ne fa il comico Siani) lo usano con il significato di “divertirsi”. E’ una mia lacuna linguistica o un nuovo significato che si va ad aggiungere a quello tradizionale ?
Ora, non perchè io faccia parte delle nuove generazioni, intendiamoci, ma avevo sempre associato “Pariare” a “Divertirsi senza impegno”. E non lo dico neppure perchè sono un’esperta del pariamento, intendiamoci bis.
Detto questo, mi fai una frase con “pariare” come digerire?
tipi ca espressione che mi viene in mente è: “Non ti posso paria’ !” che significa letteralmente “Non ti posso digerire!”. E’ solo un esempio simpatica amica 😉